SANITA': intervista al dott. Giovanni Pisani, medico di base
Per alcuni anni, mancheranno medici in ospedale e nel territorio
Redazione Online
01/02/2023

Laureatosi in Medicina e Chirurgia nell’82 all'Università di Padova, il dott. Giovanni Pisani è specializzato in Gastroenterologia e svolge la professione di medico di medicina generale presso il centro di Medicina di gruppo integrata (Mgi) di Fontanelle. In occasione della giornata del malato, gli abbiamo rivolto alcune domande sullo “stato di salute” della sanità in Veneto.

Prima e dopo il covid, quali i principali cambiamenti del mondo della sanità?

«È cambiato il rapporto con il proprio medico. Il covid ci ha costretto da isolarci. Nel periodo duro del lockdown, i pazienti non potevano venire in ambulatorio, se non per situazioni particolarmente gravi e previo tampone. Si è aperto così il mondo dell’informatica, grazie al quale abbiamo comunicato con i nostri pazienti tramite Sms, Whatsapp, e-mail... Abbiamo abituato i pazienti ad ottenere le risposte con questi strumenti. Tutto questo, però, ha alterato il rapporto medico-paziente, che è fatto di ascolto dei sintomi, di obiettività della visita, di conclusioni diagnostiche e di indirizzi terapeutici».

E cosa succede allora?

«Succede che i pazienti mandano, ad esempio, la risonanza magnetica via internet e, se aspetti qualche giorno a rispondere, chiedono come mai. Ho imparato a rispondere: “Prenda un appuntamento e valutiamo la cosa in ambulatorio”. A volte le risposte possono essere di una parola, altre volte possono essere complesse e delicate e non si possono risolvere con un messaggio».

La via informatica non alleggerisce il lavoro di un medico?

«Il lunedì e il martedì, quando guardo le e-mail e i messaggi Whatsapp ricevuti, resto impressionato. L’informatica non ha alleggerito il lavoro, anzi lo ha reso più pesante, perché una comunicazione che appare immediata e semplice ha moltiplicato le domande. Tutti scrivono e tutti vogliono una risposta e partono dal presupposto che il medico debba rispondere subito. Quando finisco di rispondere alle telefonate e ai vari messaggi Whatsapp, mi chiedo: “Ma quanti di questi avevano davvero bisogno del medico?”. Secondo me, non sono molti, ma intanto ho dedicato almeno due ore a dare risposte e questo va a scapito dell’anziano, che deve essere visitato a casa, e di tutte quelle persone che non possono avvalersi di questi sistemi e necessitano di una visita di persona».

Come mai è accaduto?

«Perché è più comodo: la via dei mezzi informatici è un servizio di una comodità infinita. Però bisogna capire che l’ambito medico è diverso: non è come scrivere una e-mail tra due aziende o per effettuare un acquisto on line. In medicina, ci collochiamo in un rapporto umano, tra persone, dove è fondamentale il dialogo, la visita, l’ascolto».

E quindi?

«Bisogna ritornare a ristabilire un giusto rapporto tra medico e paziente. Una diagnosi non si può fare al telefono. Ora lo stato di emergenza è stato superato e dobbiamo ritornare ad un rapporto vero e corretto tra paziente e medico».

Un grosso problema, oggi, è la mancanza di personale sanitario: medici, infermieri, oss... Come si spiega? Quali possibili proposte di soluzione?

«È un grande punto interrogativo. A Fontanelle, ad esempio, nel nostro centro di Medicina di gruppo integrata, abbiamo un plafond di ore-lavoro di infermiere, ma non riusciamo a trovarle e ci teniamo strette quelle che abbiamo. Se ne formano troppo poche e quelle che ci sono vengono “risucchiate” dagli ospedali e, così, a disposizione del territorio ne rimangono pochissime».

Poi c’è la questione del personale medico...

«Quando mi sono laureato io, nell’82, c’era la “pletora medica” e i neolaureati non riuscivano a trovare posto. Oggi invece se un medico va in pensione non riusciamo a sostituirlo. Certo, si è voluto evitare di illudere i nuovi laureati, ma si è arrivati all’opposto, alla “disperazione”. Si è fissato il numero chiuso a Medicina e così abbiamo esaurito la pletora di medici che erano stati preparati negli anni precedenti, ma adesso quelli che escono dall’Università sono troppo pochi. In secondo luogo, si è creato l’imbuto formativo della specializzazione: per lavorare in ospedale - ma anche per lavorare sul territorio come medico di medicina generale - è necessario avere la specialità. Precedentemente solo una certa percentuale di medici poteva accedere alle specialità. Gli altri no... Adesso questo imbuto è stato risolto – almeno in parte – perché le specialità sono state aumentate ed è stato aumentato anche il numero di specializzandi ammessi alla specialità di medicina generale. Per cambiare rotta, tuttavia, ci vorranno forse 6-7 anni. Abbiamo davanti a noi anni in cui i medici mancheranno, negli ospedali come nel territorio».

Secondo il parere di molti, le lunghe attese nella sanità pubblica - anche veneta - spingono gli utenti verso la sanità privata. Che ne pensa?

«È un riflesso. Non solo della carenza di formazione, cioè del fatto che si formano pochi medici, ma anche del fatto che la gente “scappa via”. Il personale sanitario in questi anni di Covid non è stato immune dalla disperazione per quello che ha vissuto e per quello che ha visto, né dalla stanchezza per il superlavoro. Pertanto, basta aprire la porta e sentirsi dire: “Vieni in Inghilterra o in Svizzera e ti do il doppio...” e il neolaureato se ne va. Ormai il mondo è globalizzato. I giovani poi non hanno alcun problema a viaggiare».

Che cosa ritiene necessario fare?

«Bisogna a tornare a credere nella sanità pubblica. Personalmente, ho sempre creduto nella sanità pubblica, che ha dimostrato il suo valore nelle situazioni di emergenza come quella del Covid: è una grande forza, rispetto ad altre realtà in cui è tutto privato. Dobbiamo tornare a crederci. Ma per tornare a crederci dobbiamo mettere risorse in campo. Il costo della sanità in Italia è la metà di quello della Francia e un terzo di quello della Germania. Negli anni abbiamo insistito molto sul risparmio: è giusto togliere gli sperperi, però bisogna anche investire sulle nuove tecnologie, sulla professionalità ed onorare chi lavora nel settore pubblico. Dobbiamo investire di più. Anche i corsi di aggiornamento sono fermi da dieci anni, mentre sarebbero obbligatori da contratto. Da dieci anni a questa parte la Regione non ne ha più organizzati. Progressivamente si è investito meno sulla formazione e di più sulle strutture».

Il nuovo Pnrr potrebbe essere un’opportunità?

«Ho l’impressione che siano soldi che portiamo a casa per fare muri e strutture edilizie, ma i muri hanno bisogno di persone e professionalità. Bello fare la “casa di comunità” o il “nuovo distretto”: ben vengano le strutture, ma dobbiamo riempirle con personale preparato, competente e adeguatamente onorato».

Nel 2015 la Regione Veneto, con la delibera 751, aveva avviato una riorganizzazione delle cure primarie sul territorio. A che punto siamo?

«Sui giornali leggiamo dei grandi interventi negli ospedali, ma non vediamo i malati che sono a casa allettati o con alimentazione parenterale e che sono visitati dai medici nel territorio... Sono situazioni croniche che durano anni! La cronicità è tutta sul territorio, non negli ospedali. La delibera del 2015 aveva deciso di riorganizzare il territorio ed aveva abbozzato il cosiddetto “modello veneto”, uno dei più organizzati a livello nazionale. Se si legge la delibera, sembra di leggere un grande futuro per il territorio: entro i quattro anni successivi, i medici di medicina generale avrebbero dovuto lavorare in ambulatori di “medicina di gruppo integrata”. Ebbene, in quattro anni, in tutto il Veneto, i centri di Mgi da 49 sono diventati a 72: troppo poco. Un progetto partito alla grande, si è interrotto. È stato detto che è un sistema che costa troppo; alcuni centri hanno addirittura chiuso, anche perché per lavorare insieme bisogna avere una certa sensibilità. La delibera del 2015 era una vera riforma, ma non essendoci le risorse sufficienti, si è bloccata. Le risorse però si trovano, in base alle scelte politiche».

Alessio Magoga